Una ricerca, assistenza legale, informazione e corsi di Italiano: il progetto IM-Formati per contrastare caporalato e riduzione in schiavitù nella provincia di Latina
Pagano cifre esorbitanti per raggiungere il nostro Paese ed avere un contratto di lavoro, ma si trasformano presto in mano d’opera irregolare a basso costo, sfruttata dalle aziende agricole dell’agro Pontino fino a dodici ore al giorno, per un compenso (quando c’è) di 3 o 4 euro l’ora. Sono i braccianti stranieri della provincia di Latina, che ci ricordano come il fenomeno dello sfruttamento lavorativo non riguardi solamente il meridione d’Italia, ma coinvolga da vicino anche la nostra regione. Questo è il quadro che emerge dal progetto IM-Formati, lanciato nel mese di gennaio 2016 dall’associazione Dokita, con il finanziamento dei Centri di servizio per il volontariato del Lazio Cesv e Spes.
Il progetto, ormai in fase di conclusione, ha inteso promuovere la tutela dei diritti dei lavoratori stranieri che vivono nella provincia di Latina, agendo su diversi fronti. Dokita, infatti, ha offerto assistenza legale gratuita a 50 immigrati vittime del caporalato e dello sfruttamento lavorativo, ha sottoposto loro un questionario, per realizzare un report di approfondimento su questi fenomeni e ha coinvolto altre associazioni del territorio, per unire le competenze e costruire le condizioni per una maggiore integrazione dei lavoratori stranieri nel territorio. IM-Formati ha interessato principalmente il comune di Terracina, dove si trova la sede operativa delle associazioni Dokita e Progetto diritti, ma ha raggiunto anche alcuni lavoratori di Fondi e Latina, grazie al sostegno dell’associazione Articolo 24 (Fondi), al contributo della Caritas diocesana di Latina e della Cooperativa Parsec.
Venerdì 8 luglio si svolgerà a Terracina la conferenza conclusiva del progetto (alle 17.30 presso la sala comunale Appio F. Monti di via Roma a Terracina), durante la quale saranno diffusi i dati raccolti nel report realizzato dall’associazione Dokita. Cecilia Calò, responsabile del progetto IM-Formati e referente dell’Ufficio Progetti Cooperazione Internazionale Dokita, ci ha anticipato alcune informazioni.
Qual è la situazione dello sfruttamento lavorativo nella provincia di Latina?
« Tra le diverse province del Lazio, la provincia di Latina è quella con la maggior crescita di stranieri residenti. Nel tempo, è diventata sempre più evidente la connessione tra questo dato e l’emergenza dello sfruttamento lavorativo, spesso gestito dalla criminalità organizzata. Dei 50 lavoratori stranieri coinvolti nel progetto IM-Formati, la maggior parte proviene da Bangladesh, India e Pakistan, ma alcuni di loro sono originari del Nord Africa e dell’Africa Subsahariana. Lavorano principalmente nelle aziende agricole dell’agro Pontino e si occupano soprattutto dell’attività di raccolta di frutta e ortaggi ».
In cosa consiste l’assistenza legale che avete offerto?
«I nostri sportelli legali erano attivi sul territorio già prima dell’avvio del progetto, per offrire consulenza legale in materia di immigrazione, ad un prezzo irrisorio. Grazie a IM-FORMATI, però, è stato possibile erogare assistenza gratuita a 50 persone. Le richieste si sono concentrate sul rinnovo dei permessi di soggiorno, sulle espulsioni, sui ricongiungimenti famigliari, sull’ottenimento della cittadinanza. Per coinvolgere nel progetto le comunità di stranieri presenti sul territorio, abbiamo avviato diverse attività di volantinaggio, ma la maggior parte dei lavoratori si è rivolta a noi grazie al passaparola. Molti di loro infatti sono inseriti in gruppi compatti, all’interno dei quali lo scambio di informazioni utili è una pratica di sopravvivenza ».
Come avete strutturato il vostro questionario e quali dati sono emersi?
« Il questionario è stato suddiviso in tre sezioni: “Situazione di partenza”, “Viaggio”, “Lavoro in Italia”. La prima ha inteso tracciare un quadro della vita del migrante prima della partenza, per conoscere la composizione del suo nucleo famigliare, il titolo di studio, le esperienze di lavoro svolte e le lingue conosciute. Molti degli intervistati sono sposati con figli, mentre il loro livello culturale è medio-basso. Un dato interessante che abbiamo rilevato è che la maggior parte dei migranti in partenza per l’Italia non sa nulla del nostro Paese. Quel poco che conoscono gli è stato raccontato da amici e parenti oppure dai caporali, che spesso presentano l’Italia come l’El Dorado.
La sezione “viaggio” invece ha inteso raccogliere le informazioni sullo spostamento dei migranti dal Paese di origine all’Italia: come hanno raggiunto il nostro Paese, quanto hanno pagato per il viaggio, quante tappe hanno affrontato. Esistono infatti diverse rotte migratorie. Ad esempio, da Bangladesh, Pakistan e India alcuni sono arrivati fino a Mosca in aereo, per poi proseguire in automobile fino all’Italia (un mese o due di viaggio), spesso accompagnati da un intermediario. Le cifre pagate per arrivare nel nostro Paese ed avere un lavoro sono esorbitanti, in media si parla di 7000 euro, ma c’è anche chi ha pagato 13.000 euro ».
Quindi i migranti vengono assorbiti dal sistema dello sfruttamento lavorativo ancor prima di arrivare in Italia.
« Sì. Si tratta di un sistema di sfruttamento collaudato. Tutto inizia nel Paese di origine, dove gli intermediari svolgono il ruolo di “procacciatori di forza lavoro” per le aziende italiane. Nel territorio dell’agro Pontino si tratta principalmente di aziende agricole, che producono zucchine, carote, fragole, eccetera e le mansioni per cui vengono assoldati i migranti sono soprattutto quelle della raccolta e (in misura minore) del trasporto. Una volta stabilito il contatto con la mano d’opera, che come abbiamo visto paga cifre molto alte, viene organizzato il viaggio verso il nostro Paese.
Secondo la normativa italiana, il migrante che voglia ottenere un permesso di soggiorno, nelle quote del cosiddetto “Decreto Flussi”, deve avere una “richiesta” specifica da parte del datore di lavoro, che si dica disposto ad offrirgli un contratto. È in questo contesto che agisce il sistema dello sfruttamento: vengono individuate delle aziende che offrano un posto di lavoro al migrante e poi, una volta che questa persona arriva in Italia, il contratto non viene mai stipulato. Al momento, infatti, la normativa vincola la presenza dello straniero nel nostro Paese ad un contratto, ma non c’è nessuna norma che obbliga il datore di lavoro a stipularlo. Il migrante quindi rimane in Italia come irregolare e viene sfruttato come mano d’opera a basso costo. Anzi, accade anche che per mettere in regola l’immigrato, il datore di lavoro chieda in cambio un’ulteriore somma di denaro. Quando poi il contratto viene finalmente concesso, spesso è lo stesso lavoratore a pagare i propri contributi, per poter avere il rinnovo del permesso di soggiorno ».
Queste informazioni ci consentono di parlare della terza sezione del questionario, quella sul lavoro in Italia
« Sì. In questa terza sezione abbiamo raccolto le domande relative al possesso o meno del permesso soggiorno, al contratto di lavoro, alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro, al compenso. Tra gli intervistati, alcuni non avevano un contratto e chi lo aveva non ne conosceva la natura. Non sapevano quindi quante ore di lavoro fossero previste al giorno, per quale paga, eccetera ».
In media quante ore al giorno lavorano e per quale compenso?
« Le ore di lavoro per i migranti impiegati nelle aziende agricole della Provincia di Latina vanno dalle 9 alle 12 ore al giorno. La paga oraria recentemente è aumentata, grazie alla manifestazione indetta ad Aprile dalla Flai Cgil a Latina. I migranti hanno bloccato le aziende per diversi giorni e questo ha permesso loro di ottenere una paga oraria più alta: mentre prima dello sciopero lavoravano per 2 o 3 euro all’ora, adesso prendono anche 4 o 4,50 euro all’ora, comunque molto meno di quanto indicato nei contratti collettivi di categoria, che prevedono la cifra di circa 7 euro ».
Ci dice qualcosa di più sulla figura del caporale?
«Si tratta di una figura che funge da intermediario tra i lavoratori (nel nostro caso immigrati) e le aziende italiane. I caporali, nella maggior parte dei casi, provengono dallo stesso Paese d’origine dei migranti, però sono arrivati in Italia da diversi anni, si sono ambientati e sono riusciti ad inserirsi nella rete dello sfruttamento della mano d’opera, che il più delle volte è in mano alla criminalità organizzata. Tra l’altro, vivendo in Italia da tempo, i caporali conoscono la nostra lingua meglio dei migranti appena arrivati e in molti casi possono diventare dei veri e propri “mediatori linguistici” a pagamento ».
I 50 lavoratori stranieri che avete intervistato parlano l’italiano?
« No, purtroppo con la lingua se la cavano malissimo, però sono riusciti a comunicare con noi. In generale, è molto difficile intercettare le persone più sfruttate, proprio a causa della barriera linguistica che ci divide. Grazie al progetto IM-Formati siamo riusciti a parlare con 50 persone, ma di certo non si tratta dei lavoratori che stanno peggio. È anche per questo motivo che l’associazione Dokita, membro della rete Scuole migranti, quest’anno ha organizzato un corso di italiano gratuito, che permettesse ai partecipanti di accedere all’esame necessario per ottenere la cosiddetta Carta di soggiorno. C’è poi un aspetto importante da tenere in considerazione: i migranti che arrivano in Italia spesso non solo non conoscono la nostra lingua, ma sono analfabeti, quindi incontrano una doppia difficoltà nell’apprendimento.
Ecco perché, come accennavamo, spesso sono i connazionali più integrati, che parlano bene la lingua, a proporsi come mediatori-traduttori. Però, nella maggior parte dei casi, si tratta delle stesse persone che svolgono anche il ruolo di caporale e che fanno parte della catena di sfruttamento della mano d’opera. I mediatori possono arrivare a chiedere un compenso per qualunque tipo di servizio. Ad esempio, uno dei nostri intervistati ci ha raccontato di come il suo caporale gli chiedesse 7 euro al giorno per trasportarlo in furgone sul posto di lavoro. Non solo, anche durante le ore di lavoro i migranti devono pagare per mangiare e bere. In generale, possiamo dire che viene concessa loro un’ora, un’ora e mezza di pausa al giorno e sappiamo che in questi casi sono i caporali ad avere il controllo dell’acqua: per averne un bicchiere bisogna pagare 5 euro circa. Non è un caso quindi se diversi lavoratori intervistati ci hanno riferito di malesseri durante il turno di lavoro, che hanno definito come “mal di pancia” ».
Dove vivono i lavoratori che avete intervistato?
« Quelli che abbiamo intervistato vivono tendenzialmente in appartamenti con altre 5-6 persone, a volte 10. Spesso sono case di proprietà dei caporali. Però ci sono anche tanti migranti che vivono nelle stesse aziende agricole dove lavorano, all’interno di baracche. Questo ovviamente significa che la loro vita si svolge quasi esclusivamente nei campi in cui lavorano e per le associazioni come Dokita è difficilissimo intercettarli e coinvolgerli ».
La vostra associazione si è occupata anche del fenomeno degli infortuni sul lavoro.
« Sì. Nella maggior parte dei casi si tratta di infortuni che riguardano persone senza permesso di soggiorno, che lavorano in nero e che quindi quasi sempre non denunciano l’accaduto. Questi lavoratori irregolari non sanno che, pur non avendo un contratto, avrebbero ugualmente diritto ad un pagamento da parte dell’INAIL delle giornate lavorative che a causa dell’infortunio non possono svolgere. Quando poi l’infortunio non viene denunciato c’è anche un altro fattore da tenere in considerazione: il lavoratore teme ritorsioni da parte del datore di lavoro. Negli ultimi tre anni, attraverso gli sportelli legali ci è capitato di seguire diversi casi di questo genere. Inoltre è stato possibile registrare un elevatissimo numero di infortuni a seguito di incidenti stradali avvenuti nel tragitto casa-lavoro. Infatti questi lavoratori, in particolar modo quelli impiegati nel settore agricolo, si spostano principalmente in bicicletta nelle ore più buie (partono la mattina presto e tornano a casa la notte) e viaggiano in strade ad alta percorrenza come la Pontina. Proprio per questo motivo, abbiamo regalato ad ogni intervistato un gilè ad alta visibilità, da indossare durante il viaggio casa-lavoro in bici ».
Oltre alle informazioni legate allo sfruttamento lavorativo, cos’altro è emerso dalle vostre interviste?
« Gli intervistati hanno manifestato una grossa difficoltà ad integrarsi. Si tratta di persone che raramente hanno possibilità di interagire con chi non appartenga al loro stesso gruppo etnico. La loro è una vita incentrata sul lavoro, che non prevede nessuna attività alternativa nel tempo libero. Un’eccezione è rappresentata solo dal gruppo di pakistani che abbiamo intervistato a Fondi, coinvolti nel progetto Atletico Diritti promosso dalle associazioni Articolo 24 e Progetto Diritti. Tra le persone intervistate quasi tutte non hanno un progetto migratorio a lungo termine, molte sono sposate ma non intendono far venire in Italia la loro famiglia, perché non vogliono mostrare a moglie e figli la condizione in cui si trovano. Preferiscono quindi vederli ogni due, tre anni e vivere lavorando ».
Concluso il progetto IM-Formati, come continuerete la vostra attività di lotta allo sfruttamento?
«Dokita ha in cantiere altre proposte progettuali su questo tema e vogliamo continuare ad intervenire nel campo dell’apprendimento linguistico. Intendiamo organizzare altri corsi gratuiti di italiano per stranieri e, in particolare, proporne uno rivolto alle sole donne. Tra i nostri intervistati, infatti, solamente una era donna. La nostra associazione riesce ad intercettare le donne con maggiore difficoltà, eppure molte lavorano nelle aziende agricole italiane. Sono meno rispetto agli uomini, ma ci sono ».
In generale, in che modo è possibile prevenire e combattere lo sfruttamento nel nostro territorio? Dokita come si muoverà?
« La conferenza in programma per venerdì 8 luglio intende approfondire proprio questo argomento.
Vogliamo dare voce a tutti i partner che hanno avuto un ruolo nel progetto e discutere insieme le prossime attività da avviare. Sicuramente, quindi, resta fondamentale mettere in rete le associazioni che si occupano di lotta allo sfruttamento e unire le diverse competenze: è importante fare ricerca sul tema, capire quali siano le dinamiche alla base dello sfruttamento, offrire assistenza legale, organizzare corsi di italiano per migliorare la comunicazione, avviare progetti di integrazione come quello dell’Atletico Diritti, perché queste persone possano vivere senza sentirsi solamente delle macchine da lavoro. Inoltre, Dokita è una ONG, quindi si occupa prevalentemente di cooperazione internazionale e negli scorsi anni, insieme all’associazione Progetto Diritti, ha svolto un progetto in Senegal, sulla prevenzione dell’immigrazione illegale. In particolare, abbiamo aperto uno sportello a Dakar per sensibilizzare i migranti in partenza per l’Italia, offrendo loro tutte le informazioni necessarie per raggiungere il nostro Paese attraverso canali legali, evitando in questo modo che venissero assorbiti dal sistema dello sfruttamento. Questo tipo di attività sarebbe fondamentale anche per i Paesi asiatici, ma solo poche ONG le stanno mettendo in atto. La cooperazione internazionale quindi è senza dubbio una delle risposte da attivare, perché affrontare lo sfruttamento lavorativo solo in Italia, significa affrontare solo una parte del problema, visto che tutto inizia nel Paese di origine del migrante ».
Fonte: http://www.retisolidali.it/dokita/
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Secondo il filosofo australiano Peter Singer, la solidarietà è una questione di calcolo. Per aiutare meglio chi ha veramente bisogno è necessario affidarsi alla razionalità e non al sentimento. E’ la teoria dell’ altruismoe fficace secondo cui la scelta su quale organizzazione sostenere si deve basare su di un’attenta analisi della gestione economica operata dall’organizzazione. Per aiutarti nella scelta, anche quest’anno puoi consultare il nostro Bilancio Sociale e scoprire come sono state usate le risorse economiche raccolte nel 2015.
L’intervento di Dokita nelle Isole Filippine è sempre più importante ed apprezzato dalla popolazione filippina stessa. Il riconoscimento da parte delle istituzioni e delle comunità locali è il segnale che le attività realizzate hanno raggiunto l’obiettivo più importante e di maggior rilievo, ossia quello di coinvolgere la popolazione negli interventi di sostegno allo sviluppo.
In oltre due anni di presenza nel Paese, con numerosi progetti realizzati con diversi partner e donors italiani, i risultati raggiunti sono stati davvero numerosi: centinaia di famiglie hanno ricevuto: assistenza medica, scorte di cibo, aiuto nella ricostruzione e messa in sicurezza delle abitazioni danneggiate dal tifone, sostegno alla ripresa economica attraverso la donazione di equipaggiamenti per la pesca e per l’agricoltura ed, infine, la realizzazioned i due centri di evacuazione in caso di calamità naturale.
L’impegno dello staff di Dokita nelle isole Filippine, guidato da Davide Bonechi, in stretta collaborazione con la comunità concezionista presente sul posto, ha fatto sì che il lavoro continuo fosse così apprezzato dalla popolazione locale da essere ripresi dalla CNN locale.
Scopri di più sui progetti realizzati e in corso nelle Isole Filippine.
Continua nel Mediterraneo la strage silenziosa di innocenti dimenticata da molti. Questa mattina, nel mare Egeo, al largo di Farmakonisi, un piccolo isolotto greco che si trova vicino alla costa della Turchia, è affondato un barcone di migranti provocando la morte di almeno 11 persone, tra cui 5 bambini. Tredici perone risultano ancora essere disperse.
L’imbarcazione di legno, sulla quale viaggiavano i migranti, si è ribaltata. La guardia costiera greca e le squadre di Frontex, sono riuscite a mettere in salvo 26 persone, di cui 17 uomini, 5 donne e quattro bambini.
Dall’inizio dell’anno, sono più di 650mila i migranti, soprattutto rifugiati siriani, che hanno preso il mare dalla coste turche nel tentativo di raggiungere le isole greche, e da li giungere in Europa . Oltre 500 di loro, la gran parte bambini, hanno trovato la morte in mare.
E’ intollerabile la lentezza dell’Europa nel fornire una risposta comune e condivisa alla crisi dei migranti. Noi di Dokita ci impegniamo, ci battiamo, affinché vengano attivati canali sicuri per ottenere il diritto di asilo in Europa, e si intervenga, nel modo più rapido possibile, sulle cause principali della crisi, attraverso un impegno umano, diplomatico e un rafforzamento degli aiuti e della cooperazione internazionale.
Dokita Onlus, da anni si occupa di analizzare il fenomeno migratorio in Italia, fornendo dati e aggiornamenti, proposte e interpretazioni, per cercare di fare chiarezza e portare alla luce, alcune situazioni presenti sul nostro territorio. Tutto questo, all’interno della sezione “Dokita Migrante”, presente nella nostra rivista trimestrale.
Non è una novità per le Filippine essere colpiti da un tifone, in media accade 20 volte l’anno, essendo la prima massa terrestre di una certa rilevanza, che fenomeni di questo tipo, incontrano sulla loro strada nell’Oceano Pacifico. Purtroppo negli ultimi anni questi fenomeni si sono intensificati divenendo maggiormente pericolosi e distruttivi a causa dei mutamenti climatici. Impressa nella memoria di tutti ci sono ancora quelle 7.000 persone che nel 2013 hanno perso la vita ha causa del passaggio del tifone Haiyan.
Il Paese è stato nuovamente sconvolto dal passaggio di un tifone, stavolta denominatoMelor. Le aree colpite sono più o meno le stesse interessate da Hayan, le Visayas orientali. Il suo passaggio ha causato fino ad ora la morte di tre persone e l’evacuazione di oltre 720.000 persone delle zone maggiormente colpite. A riferirlo sono state fonti ufficiali della provincia di Northern Samar e della regione di Visayas, a sud di Manila. Il tifone ha raggiunto una velocità di 185 chilometri orari provocando, al suo passaggio, danni ingenti come la caduta di alberi e piloni e ha causato numerose interruzioni nell’erogazione di energia elettrica in almeno sette province oltre alla completa inagibilità delle strade ricoperte da detriti.
Le coste dell’isola di Samar, la penisola di Bicol a Luzon le isole Romblon, che insieme hanno più di 8 milioni di abitanti, sono ora nell’occhio del ciclone, che si è verificato ben oltre la fine della stagione dei tifoni. L’evacuazione degli abitanti dalle regioni costiere piu’ esposte ha permesso di limitare le vittime.
Dokita, che si è immediatamente attivata per fornire sostegno alle persone colpite dal Tifone Hayan, non si è tirata indietro di fronte a questa nuova emergenza. Stiamo continuando a fornire supporto nutrizionale, supporto medico, e continuiamo ad aiutare le famiglie più povere nella ripresa del loro normale corso di vita aiutandole anche nella ripresa delle attività produttive.
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Magliette e altro materiale utilizzati per le campagne di sensibilizzazione in Sierra Leone
Poche ore dopo l’annuncio con cui l’Organizzazione mondiale della sanità aveva decretato la fine dell’epidemia di ebola in Africa occidentale, in Sierra Leone c’è stato un nuovo decesso. La conferma è stata data dal portavoce dell’organismo di controllo di Freetown: la donna deceduta è risultata positiva al virus. La morte di una giovane in un villaggio del nord risale ad alcuni giorni fa, ma la notizia è diventata di pubblico dominio soltanto ora. La Sierra Leone era stata dichiarata “libera dall’ebola” il 7 novembre scorso, mentre soltanto ieri, oltre due anni dopo il primo caso, l’Oms aveva certificato la fine del contagio in Liberia e di conseguenza nell’intera regione. Ma il nuovo caso rimette tutto in discussione.*
Dokita è presente in Sierra Leone dal 2013 e dalla fine del 2014 è attiva con un intervento di risposta all’emergenza ebola finalizzato a potenziare le strutture sanitarie locali e a svolgere attività di informazione e sensibilizzzazione della popolazione locale.
Alla luce di questo nuovo caso è sempre più evidente quanto le campagne informative siano importanti in questo momento in cui la sconfitta del virus dipende principalmente dall’adozione di comportamenti corretti di prevenzione.
Per questo Dokita continua a portare avanti attività di ascolto e informazione della popolazione. Clicca qui per conoscere di più sul progetto in corso.
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Dokita onlus si congratula con Mario Giro, nuovo Viceministro della cooperazione internazionale. Con la sua nomina il Ministro Gentiloni ha completato la squadra della Farnesina per affrontare le sfide dell’Agenda per lo sviluppo verso il 2030.
Una scelta nel nome della competenza e forte sensibilità politica, che Mario Giro ha dimostrato In questo ultimo anno da sottosegretario agli esteri, esercitando le deleghe sull’America Latina, l’Africa SADC e sulla promozione della lingua e cultura italiana, e precedentemente quando nel 2012 è stato Consigliere del Ministro per la cooperazione internazionale e l’integrazione Andrea Riccardi.
Il nuovo Vice Ministro ha lavorato e conosce a fondo il mondo non governativo italiano e siamo sicuri sarà attento a valorizzare il patrimonio di relazioni che la società civile italiana ha creato con i paesi del cosiddetto sud del mondo.
Nell’augurare al Viceministro Giro e al sottosegretario Amendola un incarico lungo e pieno di successi e soddisfazioni per l’Italia, nell’augurare al Viceministro Giro un incarico lungo e pieno di successi e soddisfazioni per l’Italia, Dokita si unisce all’AOI nella richiesta della piena valorizzazione del Consiglio Nazionale della Cooperazione allo Sviluppo, istituito dalla L.125/2014, nella definizione delle linee strategiche per un’Agenda italiana sostenibile ed efficace verso il 2030.
A Bamenda, capoluogo della provincia Nord-Ovest del Camerun, è stato realizzato e recentemente inaugurato un nuovo pozzo di acqua sorgiva. Il pozzo, la cui realizzazione è stata resa possibile grazie ad un finanziamento della Caritas Italiana, è profondo 30 metri e alla sua sommità è stata istallata una pompa, in modo tale da avere un apporto sufficiente e continuo di acqua sorgiva.
Finalmente, grazie al pozzo, gli abitanti della città di Bamenda potranno beneficiare di un facile accesso all’acqua potabile. Ciò permetterà di ridurre i rischi legati all’utilizzo di acqua piovana, di ruscelli o si fossi d’acqua non potabile, riducendo altresì le distanze percorse dai ragazzi della comunità per l’approvvigionamento d’acqua.
Infatti, uno dei problemi più gravi, a cui doveva far fronte la popolazione, era proprio l’approvvigionamento di acqua potabile. Essendo ben poche le case collegate alla rete idrica pubblica, durante la stagione delle piogge, i più raccoglievano l’acqua piovana dai tetti. Invece, durante la stagione secca, che va da ottobre a marzo, il problema dell’acqua diventava drammatico. Nei dintorni non esistevano pozzi pubblici per la distribuzione dell’acqua e la comunità non aveva le capacità di provvedere a tale servizio per se stessa. In genere erano i ragazzi e le ragazze anche molo piccoli che, con secchi d’acqua sulla testa, si allontanavano dalla casa perfino per chilometri per cercare un ruscello o un fosso d’acqua. Spesso l’acqua che trovavano non era potabile e ciò era la causa di frequenti malattie intestinali.
La realizzazione del pozzo ha effettivamente migliorato il livello di accesso all’acqua della popolazione della città e ridotto i rischi socio-sanitari derivanti da un difficile approvvigionamento.
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Da qualche giorno girano sui Social Media delle immagini toccanti, che parlano da sole. Ci raccontano in silenzio una storia straziante, quella del piccolo Hope. La storia di Hope, (dall’inglese “Speranza”), ci arriva dal sud della Nigeria, nello Stato di Akwa Ibom, cittadina di Uyo.
Hope, girovagava da circa 8 mesi nel villaggio, nudo, denutrito, in fin di vita, sopravvivendo come poteva, rovistando fra gli scarti gettati in strada dai passanti. Fortunatamente, il bimbo è stato notato da una cooperante, che non ha esitato nel prenderlo in braccio e a portarlo presso l’ospedale più vicino, dove ha subito ricevuto le cure necessarie per eliminare i vermi che gli stavano mangiando lo stomaco, e un ciclo di trasfusioni per riportare nella norma i parametri vitali.
Di Hope si sa poco o nulla. La sua età, di circa 2 anni, è stata stimata dai medici che lo stanno curando, e il nome gli è stato attribuito dalla stessa cooperante al momento del ritrovamento. “Speranza” come auspicio che possa portare a questo bimbo tutte le gioie che la vita, almeno fino ad oggi, gli ha negato.
La volontaria rende noto che “Ora le sue condizioni sono stabili e continuano a migliorare, infatti, ha ripreso a mangiare e la cura sta avendo i risultati sperati. Oggi è un bambino forte e ci sorride. Non so proprio come descriverlo a parole. Questo è ciò che rende la vita così bella e preziosa, e quindi lascerò che le immagini parlino da sole”. Due giorni dopo aver chiesto aiuto per le spese mediche di Hope, la cooperante ha ricevuto 1 milione di dollari in donazioni da tutto il mondo.
Hope è stato abbandonato dalla sua famiglia perché considerato “Ndoki”, un bambino stregone. In alcuni Paesi dell’Africa occidentale, come la Nigeria, Somalia, Sudan e Congo, la credenza nell’esistenza della magia nera è ancora molto forte. I bambini, dopo esser stati etichettati come stregoni, subiscono delle violenze inimmaginabili ed inaudite. Esorcismi, prigionia, fame forzata, pozioni “magiche” fino ad arrivare all’abbandono o addirittura all’uccisione degli stessi da parte dei membri della comunità.
In Nigeria si stima che ogni anno siano circa 15mila i bambini abbandonati per questa ragione. In Congo si arriva a 25mila.
Dokita onlus, in collaborazione con l’associazione locale “OSPEOR”, lavora da oltre venticinque anni per aiutare i bambini di strada nell’area urbana di Kinshasa. Ogni mese si stima che 650 bambini finiscono in strada, molti con l’accusa di stregoneria. I bambini, una volta tolti dalla strada, vengono accolti ed inseriti in un programma di recupero. Il programma prevede un’assistenza sanitaria, un’assistenza alimentare e la possibilità di ricevereun’istruzione scolastica. Attualmente il progetto dà sostegno a 148 bambini di strada o orfani bambini/ragazzi (30 interni e 118 esterni). Clicca qui per sapere di più sul progetto.
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