Le voci dal campo – Padre Leonard Lumfa dal Camerun
In questi giorni abbiamo raccolto la testimonianza di Padre Leonard Lumfa, religioso Concezionista e medico, che gestisce l’ospedale “Immaculate Conception” costruito dalla CFIC a Bamenda, Camerun. Ci ha rilasciato una toccante intervista in cui racconta la situazione della struttura, il drammatico contesto camerunense e le scelte che lo hanno portato a tornare nel suo Paese natale dopo anni di studio in Italia.
PADRE LEONARD LUMFA – Concezionista e Medico
– Gentile Padre Leonard, ci può parlare brevemente della sua vita, dei suoi studi in Europa e della scelta di tornare nel suo paese natale?
Un caro saluto a tutti i benefattori italiani. Sono Fratel Leonard, sono camerunense, missionario e medico dei Figli dell’Immacolata Concezione. Mi sono laureato all’università di Tor Vergata a Roma e dopo l’esame di stato ho deciso di tornare in Camerun dove Dokita svolge alcuni dei suoi progetti.
Attualmente lavoro come medico generale nell’ospedale di Bamenda. La città è martoriata da una guerra civile e la popolazione locale non ha la possibilità di acquistare medicine, neanche per i bambini e per le donne incinta. Insieme ad altri religiosi e infermieri facciamo il possibile per fornire supporto e cure al maggior numero di persone. Ho scelto la Congregazione perché ho sempre sentito dentro di me una voce che mi diceva di dover aiutare le persone più bisognose e gli ammalati del mio Paese.
– Qual è il rapporto di Dokita con la Congregazione e quanto è importante il nostro supporto?
Grazie a questa collaborazione Dokita riesce a supportare tante persone bisognose, non solo in Camerun, non solo in Africa, ma anche in tanti altri Paesi del Sud America e in Asia. Qui in Camerun fornisce un aiuto fondamentale agli orfani e ai disabili, dando loro nutrimento ed educazione, cose semplici ma che purtroppo non riescono a ricevere dalla propria famiglia. Svolgiamo opere caritatevoli per migliorare le condizioni di vita di chi soffre. Dokita permette a tante persone di buona volontà dei paesi più sviluppati, che non hanno però la possibilità di aiutare in prima persona in questi luoghi, di donare affinché si possa portare supporto ai più fragili. Il sostegno a distanza e le donazioni regolari, ad esempio, sono fondamentali per permetterci di pagare le tasse scolastiche, il cibo e le medicine a tanti bambini. Un modo per essere vicini anche da lontano. Grazie di cuore a nome di tutti coloro che ricevono l’aiuto.
– Quali altri progetti si potrebbero attuare per migliorare le condizioni di vita della popolazione locale?
Tramite Dokita si potrebbero implementare i progetti già in atto per migliorare la vita deli bisognosi soprattutto in questa zona di guerra civile. Servono attrezzature, medicinali, raggi x e strumenti di laboratorio utili per ottimizzare le procedure di diagnostica. Intensificare i programmi di istruzione anche verso i disabili, perché solo con l’istruzione i bambini potranno riscattare la loro condizione. L’autosufficienza passa dall’educazione e dall’insegnamento delle materie fondamentali. Questi sono gli obiettivi che ci poniamo per il prossimo futuro, perché avere un mestiere significa avere il pane quotidiano e sentirsi utili per la comunità e per la società.
– Ci parli un po’ dell’ospedale che lei porta avanti?
Si chiama “Immaculate Conception Catholic Medichal Centre” costruito dalla CFIC e si trova a Bamenda, città fulcro della guerra civile, in pochi anni è stato ristrutturato un edificio già esistente ed attualmente ha degli standard molto elevati rispetto agli ospedali della zona. Gli ospiti dell’ospedale sono soprattutto bambini e donne incinta, grazie ad un progetto di Dokita finanziato dalla Conferenza Episcopale Italiana, negli ultimi mesi stiamo ampliando il reparto maternità con l’installazione di nuovi letti e materassi. Tre stanze per la degenza femminile e tre per quella maschile entrambe con tre letti e un’altra con quattro letti per i bambini. Non è tanto grande ed ogni giorno è piena, ma cerchiamo di fare il possibile per accogliere più pazienti possibili. Abbiamo un laboratorio analisi che funziona molto bene e una sala operatoria ben attrezzata dove facciamo interventi chirurgici come ernie e appendicectomia. Ogni mese forniamo assistenza a circa 200 malati, ogni martedì si svolge la giornata di vaccinazione dei bambini e due volte a settimana giriamo per i quartieri per sensibilizzare ed educare alla prevenzione del Covid-19 e di altre malattie. Durante questo periodo di pandemia abbiamo avuto serie difficoltà. Abbiamo i kit per la diagnosi ma non abbiamo lo spazio per poter trattenere ed isolare i malati di covid. Per questo dopo aver diagnosticato la positività li portiamo in un altro ospedale di stato, maggiormente attrezzato per gestire il coronavirus. Nel corso del lockdown sono mancati parecchi rifornimenti di medicinali e di strumentazioni di laboratorio ed è stata molto dura per noi gestire la situazione.
– La guerra civile continua e purtroppo, nel mondo, se ne parla troppo poco. Ci racconta le conseguenze del conflitto sulla popolazione locale?
La situazione sociopolitica è complicata. Racconto brevemente la storia: il Camerun ha due lingue nazionali, francese e inglese, perché durante la colonizzazione una parte è stata colonizzata dalla Francia, French Cameroon, in cui si parla la lingua francese e la restante parte dall’Inghilterra, British Cameroon, più piccola rispetto alla prima in cui si parla inglese. Quando l’Inghilterra decise di rendere indipendente questa parte del Camerun, venne indetto un referendum per rendere il Camerun un unico stato. Possiamo quindi dire che le due parti compongono un unico paese, Il Camerun, in cui la parte anglofona rappresenta il 20%, la francofona la restante parte.
Dal novembre 2016 è in corso una violenta crisi che ha visto un’escalation militare, iniziata quando i cittadini delle regioni secessioniste hanno proclamato l’indipendenza di quello che è conosciuto come British Cameroon ed hanno annunciato la nascita del governo indipendente dell’Ambazonia. Questa decisione ha portato a un immediato scontro tra i separatisti e l’esecutivo di Paul Biya, da anni Presidente del Camerun. Gli scontri, come purtroppo sempre accade in queste situazioni, non hanno risparmiato i civili e neanche bambini e donne incinte.
I gruppi armati continuano a nascondersi nei boschi entrando spesso in città, distruggendo villaggi e sparando senza pietà. Proprio la settimana scorsa ci sono stati 4 morti e il 10 febbraio hanno bruciato una scuola frequentata da più di 200 bambini, per fortuna ne sono tutti usciti indenni. La popolazione non riesce neanche ad essere tranquilla nei mercati o nei terreni di coltivazione e questo comporta la mancanza di cibo e soldi per le famiglie. Tutto questo senza dimenticare che malaria e altre malattie, dovute alla mancanza di acqua pulita, continuano a mietere vittime e che tantissimi bambini non sono mai andati a scuola e l’ignoranza continua a crescere, per questo, qui nella struttura della Congregazione stiamo utilizzando una grossa sala come scuola.
Pochi giorni fa una ragazza stava per partorire durante una delle irruzioni delle bande armate, non potendo venire in ospedale, ci ha chiamato in lacrime. Io e il mio collega siamo usciti di corsa, senza pensare ai rischi, e grazie a Dio dopo circa un’ora la ragazza ha partorito, dando alla luce il piccolo Benin. Dio solo sa cosa sarebbe successo se non l’avessimo portata in ospedale. La situazione era davvero grave, non abbiamo un’ambulanza, ma una semplice macchina e potete capire la difficoltà di portare una donna, a pochi minuti dal parto, in queste condizioni. Purtroppo, non avevamo altre possibilità.
Concludo ringraziando la CEI e tutti voi che sostenete le attività di Dokita dall’Italia, perché è soprattutto grazie a voi benefattori che portiamo avanti la nostra opera. Come medico religioso prometto che continuerò a fare di tutto non solo per curare il corpo ma anche per curare le anime dei nostri assistiti, perché l’uomo è fatto di corpo ma anche di spirito. Continuiamo a pregare nella speranza di essere sentiti dal resto del mondo. Abbiamo bisogno di far sentire il grido del nostro popolo.